Il Castello Visconteo

Nel 1359, Galeazzo II Visconti riuscì, dopo un impegnativo assedio, a conquistare definitivamente Pavia. Probabilmente la fama di inespugnabilità di cui godette la città nel corso del Medioevo, oltre alla memoria dell’importante ruolo di capitale del regno italico da essa svolto, determinarono la scelta di farne la sede privilegiata della corte, oltre che un centro politico-amministrativo e culturale.

La costruzione del Castello, intrapresa nel 1360, si concluse in tempi strettissimi, tanto che nel 1366 Galeazzo II poteva chiedere a Guido Gonzaga di inviare a Pavia “omnes pictores civitatis vestre Mantue”, in ragione dell’intenzione di fare dipingere tutto il Castello pavese. Rispetto ai castelli viscontei più antichi, in cui la funzione residenziale si trovava congiunta a quella difensiva, quello pavese inaugura una nuova tipologia di edificio esclusivamente residenziale, essendo le funzioni militari assolte dall’attigua cittadella.

Prima della perdita dell’ala settentrionale e delle due torri corrispondenti – la struttura fu mutilata nel 1527 e successivamente rimaneggiata a causa della destinazione d’uso a caserma durata fino al 1920, e restaurata tra il terzo e il quinto decennio del XX secolo – il Castello di Pavia aveva un impianto perfettamente quadrato, con un ampio cortile interno, cinto da quattro corpi di fabbrica e quattro torri angolari, leggermente sporgenti rispetto alla cortina muraria esterna.

L’edificio fu concepito mediante l’accostamento di campate quadrate, di dimensioni minori nel portico e nel loggiato rispetto agli interni, dove l’applicazione di questo sistema permetteva flessibilità nel comporre ambienti variabili di una sola, due oppure tre campate, mediante il differente posizionamento delle murature trasversali. Essendo ogni campata illuminata da un’ampia bifora, aperta verso l’esterno, la modularità dell’impianto diede adito alla regolarità dell’ariosa finestratura che connota i prospetti; di questi ultimi, quello meridionale permette tuttora di intuire l’impatto monumentale che Galeazzo II aveva voluto per la sua nuova residenza nei confronti della città.

Lo slancio verticale dell’insieme, dovuto anche a ben studiati rapporti proporzionali e alla rastremazione delle torri, poteva essere originariamente amplificato dall’effetto specchiante dell’acqua nel fossato e dallo svettare della merlatura al di sopra delle falde delle coperture, oltre che dalla situazione urbanistica di netto isolamento dell’edificio rispetto a un tessuto urbano costituito da edifici di altezza nettamente inferiore.

La larghezza del fossato, connessa anche a esigenze di difesa, aveva comportato l’edificazione di rivellini in corrispondenza degli ingressi. Dei due attualmente rimasti in essere, quello sul fronte occidentale conserva una scala nello spessore della muratura meridionale, che consentiva l’accesso direttamente al primo piano del Castello; altri collegamenti verticali originari sono realizzati nelle murature d’ambito delle torri, così come nello spessore del muro erano ricavate le latrine, una delle quali, perfettamente conservata, è venuta alla luce al primo piano dell’ala meridionale durante i restauri degli anni trenta del XX secolo.

Costituiscono, invece, ancora nodi non risolti la posizione e l’aspetto dell’originario scalone, essendo quello attuale posteriore all’età viscontea; è, tuttavia, probabile che dovesse trattarsi di una sorta di rampa inclinata, dal momento che è documentata la possibilità di raggiungere il primo piano senza smontare da cavallo.

La vocazione prettamente residenziale dell’edificio, denunciata esternamente dalle ampie bifore regolari, poté esprimersi liberamente nei prospetti del cortile, caratterizzati da un portico continuo ad archi, sormontato – originariamente su tutti i lati – da una sequenza ininterrotta di ampie quadrifore, unite tra loro da due cornici continue e corredate da una decorazione dipinta, che prevedeva foglie stilizzate.

Ai tempi di Gian Galeazzo, quindi entro lo scorcio del XIV secolo, le quadrifore vennero sostituite da bifore sul lato occidentale e da monofore su quello orientale. Ciò dovette avvenire per un’esigenza di aggiornamento del gusto - come documentano, in particolare, le monofore improntate al gotico internazionale con il loro coronamento a foglie accartocciate - ma anche per consentire la parziale chiusura del loggiato e la conseguente possibilità di realizzare ambienti fruibili anche durante la brutta stagione.

Un problema alquanto spinoso è costituito dall’identificazione dell’autore del primo progetto del Castello. L’attribuzione a Bernardo da Venezia, sebbene funzioni perfettamente dal punto di vista stilistico e sia stata universalmente accettata, non trova sostegno sul piano documentario, dal momento che l’ingegnere è attestato al servizio di Gian Galeazzo, non di Galeazzo II, a partire dal 1389-1391, quando il castello di Pavia era già in piedi da un trentennio circa, e fu attivo con sicurezza nella residenza viscontea – per il ripristino del sistema idraulico dei fossati – nel 1403, più di un quarantennio dopo la redazione del primo progetto dell’edificio.